E’ arrivato
pure quest’anno, mai come quest’anno con purè di osanna. Contorno di spirito
santo di patate, per questo piatto rituale e questo rituale quantomai piatto.
Oltretutto con un che di papale e pesantuccio. Come il fiato dello zio
infartuato eppure costipato dopo tutti i cenoni alla barcollo ma non mollo,
come non potrebbe non essere coll’afflato ecumenico e paraculico di tutte le
religioni sul colon e sul collo. Religioni, al plurale: perché da noi nasce il
frutto del suo seno gesù, però nel resto del mondo monoteista nascono altri
pretesti come frutti di stagione che fuori di senno lo sono anche di più. Tutte
religioni della bontà, con tutte le loro buone ragioni di marketing,
antecedenti anche se adesso meno efficienti di quelle della Coca Cola che col suo Natale trionfa qua come là…
Religioni, oppio dei popoli e scoppio degli oboli a negozianti e mendicanti.
Religioni: che sono le solite sette, che alla solita mezzanotte della stagione
e della ragione fanno scattare il rimedio anti-magone: il timer di qualche
festa per controllare il cucù nella nostra testa. Pioggia, freddo, giornate
corte e musi lunghi — no, così non va. Periodo troppo cupo. Urge festa da scavarsi nel
cuore dell’inverno, per non sentirsi nel buco del culo dell’inferno. Come in
effetti siamo, ma pare brutto se lo ammettiamo. Verità fa rima con felicità
solo a parole, mica fra le galline festaiole... E che è ‘st’atmofera mesta alla
Arthur Schopenahuer? Vai colla mega festa da Fedez il rapper! Luci, suoni,
colori e calore e regali a coloro che ami. La tua religione che incoraggia e
benedice la libagione, tutte le religioni che riconoscono la sola vera
religione con una ragion d’essere, anzi d’avere: il consumo, lo shopping, la
Santissima Scontrinità. Prego dio, ma prego accomodarsi alla cassa — meglio di
così. Dal cattolicelismo all’islam all’ebraismo: festoni che sono suggestioni
anche per l’ateismo, superstizioni per il solstizio d’inverno col clima ostico:
che infatti stanno bene anche all’agnostico. La neve scende giù coll’umore, tiriamoci
su colla saga mentale dell’amore. Fintamente fraterno, ché gli altri per noi
sono sempre l’inferno. Ma volete mettere Sartre, colla bellezza di ‘sto
cimitero panoramico di sepolcri imbiancati da neve finta che nemmeno a
Montmartre? Questo si pensa e ci sta bene, ma non sta bene dircelo. Quindi
ipocrisia come se piovesse, anzi, nevicasse. Quindi avanti colle feste, avanzi
di cena e di pena fino all’Epifania.
Ennesimo
Natale di crisi, ma primo Natale di CrisIs.
Un Natale come lo scemo: di guerra; un Natale più o meno di guerra, ma scemo e
farlocco come tutti quelli che il padre del neonato — se
esistesse, come se anche esistesse non avesse di meglio da fare… — ha mandato
in Terra. Scemitudine e guerra come libidine, due concetti che ricorreranno
spesso in questo Papaluto da Papà Natale. La scemitudine chiama la guerra, ma chi
ama la guerra non ama la scemitudine: e la guerra per conto suo la fa fare agli
scemi, mentre persegue i suoi schemi finanziari.
Tipo il
geniale Hassanal Bolkian. Come, chi cazz’è? Lo scemo del giorno, che infatti fa
la guerra; lo scemo del giorno di Natale, che infatti fa la guerra al giorno
medesimo. A parte questi fondamentali titoli onorifici, il signore è anche
sultano del Brunei. Cioè della solita petrocrazia islamica a minchia retta
dalle nostre democrazie strabiche a benzina, in cui festeggiare il Natale sarà
proibito per legge e vaneggiamento del suo cervello scorreggiante a nafta
bigotta. Fino a 5 anni di carcere per chi nel Brunei festeggia il Natale: se
fai l’albero, ti facciamo un culo come la capanna del presepe. Intendiamoci.
L’idea non è male, in fondo anche equa: che sono cinque anni di carcere per il
Natale in Brunei, rispetto alla galera cinepanettona di trenta e passa che ci
tocca col Natale in Italia ma sempre da qualche parte con De Sica?! Fino a
quando lo fanno comandare, Bolkian a casa sua fa come gli pare. Il problema
è che lui fa come gli pare all’estero, mentre a casa sua devono obbedire.
Perché il sultanato è nel Brunei, ma il sultano non ci conterei. Hassanal colla
Total incassa, ma col Total Burqa
delle sue femmine si scassa: infatti lui le feste se la fa a Londra. Cioè in
una città talmente natalizia che Babbo Natale al confronto sembra il Grinch che
presiede una riunione del Cicap. Champagne per Bolkian, sharia per i suoi
sudditi. Fare contento l’imam islamista ossesso sì, essere scontento e fesso
lui, no. Gli piace fingere facile, ecco. Più comoda di così, la guerra santa
non può essere. Soldi a manetta dall’occidente che importa, solide manette se
l’occidente si importa: e lì m’incazzo, lì m’importa… Perfetto spirito
natalizio, diciamo. Ipocrisia canaglia, uguale e contraria a chi da noi raglia
all’incirca allo stesso modo.
Tipo Matteo
Salvini, che in questi giorni ha trasformato la classica tritatura di palle
delle recite di Natale in una bellica e trita pantomima di balle sulla terza
guerra mondiale. Più bello e più bellico, il presepe coll’elmetto e il filo
spinato — alla fin fine siamo sempre in medioriente, e lì ci si va armati:
ma mica solo di buone intenzioni. Salvini il leghista presepista che manco un
napoletano, Salvini apripista di nuova tendenza anche in casa Cupiello. Il
presepe bellicista, animalista, feticista delle perversioni zoofile. Del
presepio facciamo un carnaio, un canaio, un porcile e uno scempio. Tutto grazie
a lui, l’asino che si dà alla politica internazionale, il bue che dà del
cornuto all’asino internazionale Renzi, il dromedario quasi più gobbo del colpo
che gli è riuscito nel far sembrare la Lega — il partito di chi si fotte la
Corna e i diamanti — nel partito che si batte per la pulizia morale e per i credenti.
L’uomo-bestialità che — facendo il Re Mago della Fuffa propagandista e della Truffa
razzista nel presepe della scuola del figlio — ha dato un messaggio chiaro: se
posso essere tutte ‘ste bestie insieme, noi della Lega non dobbiamo porci (e
cani) limiti. Da partito dell’incidente giudiziario a partito dell’Occidente
reazionario — e avanti colle belle statuine del presepio, colle brutte pose
suine che fanno pieni voti da Brescia a Manerbio.
E noi del
Papaluto che siamo, da meno? Meno porci e cani e minorati del cazzaro
maggiorato Salvini? Se il presepe dev’essere un simbolo, uno status di stato
confusionale da embolo noi mica ci tiriamo indietro. Al massimo ci tiriamo dietro
un po’ di ricordi. E quindi più che vivente e di propaganda, noi il presepe lo
facciamo meno demente: e con qualche appunto in agenda. Magari in una di quelle
che regalano le banche in questo periodo, mentre ti relegano allo spizio della
Caritas. Mica per niente il nostro presepe ha per titolo (scontato e
spazzatura, anche, ma mai quanto quello obbligazionario di certe banche ladre
di natura…) Banco Natale. In onore di Banca Etruria, ma anche per lo scandalo
bancario-leghista Credieuronord alla (cattiva) memoria…
E chi ci
mettiamo, dentro la scena della natività? Tutti quelli che vorrebbero starne
fuori, perché questa è una scena — se non del crimine — certo della complicità. Della passività, della connivenza,
quantomeno dell’indifferenza: verso chi derubato dalla sua banca s’ammazza
mentre tuo padre — locupletato dalla medesima — nella crisi ci sguazza. Tutti quelli che non vorrebbero essere
messi in mezzo, che del presepe più che altro gl’interessa la mangiatoia, che
con ogni mezzo vorrebbero passare per verginelle quando sono figli di troia. E
allora, prego e preghiamo si accomodi Maria (Elena) vergine mica tanto dal
servo encomio, protettrice degli uccelli paduli di Boschi e di Riviera nonché
della Maremma Bancaria. Che nel reparto santa maternità (e cotanta paternità…) del
presepe ci sta benissimo perché l’ha fatto da piccola, che modestamente è
ancora illibata come allora perché lei dà solo inculate della madonna che
interpreta e della malora, che oltretutto ha umili origini contadine: anche se
da come ha messo a quattro zampe i risparmiatori truffati, si pensava pecorine.
Accanto a lei suo marito putativo e sputtanativo del Paese, che di banche non
sa e con lei ci fa una sega: il falegname Giuseppe Renzie, col chiodo di pelle
fisso di farti la pelle eppoi fesso dicendoti che lui il decreto salvabanche
mica l’ha fatto per proteggere papà Boschi o se stesso. Anche se il decreto che
convertiva e spolpava le popolari in Spa l’ha fatto undici mesi fa, lui di ‘sto
casino se n’è accorto adesso. All’improvviso. Un’illuminazione, una
rivelazione, anzi un’epifania: epifania? Avanti allora e all’oro (sparito dalla
cassa) e incenso (sparato dalla grancassa dei giornali) a tutta birra, arriva
il Re Mangio Denis Verdini. Il terzo toscano, il freddo che completa la banda
della Maiala. L’uomo dell’aiutino al governo Renzi, dello zampino nel crac Mps,
del Credito Cooperativo Fiorentino sotto terra con lui sotto processo. Fallito
pure quello, guardate un po’. E guardante anche un po’ il nostro presepre che
prende forma, fra risparmi e risparmiatori che prendono il volo dalla finestra.
Ancora fermi a Gesù, Giuseppe e Maria? Aggiornatevi: Denis er più, Giuseppe
Fonzie e Maria. Li chiamavano Trinità, voi chiamateli calamità: prima di loro
in Toscana non era mai fallita una banca…
Solo
coincidenze, eh. Al massimo un po’ di connivenze, ma roba piccola:
gozzovigliare gozzanesco, intimo, famigliare… E comunque non hanno fatto o
imparato tutto da soli. Hanno avuto un venerabile Maestro, che proprio in
questi giorni è morto non invano: lasciando questo adorabile contesto. Licio
Gelli è morto e sepolto, solidarietà ai vermi che dovranno mangiarsi una merda
così. Gelli è morto, ma non sepolto. Solo coperto, male, dalla cattiva
coscienza delle sue ex cameriere che gli devono fantastiche carriere. Gellì è
morto: fra tanti, stranamente, non
ne danno il triste annuncio Silvio B, Maurizio Costanzo, e Fabrizio Cicchì. Tutti
personaggi che ci starebbero bene, nel presepe. E che infatti — Nazareno
più o Domenica In meno — ancora ci stanno. E’ morto Gelli, ma mica i suoi anni belli: la
P2 va avanti, dei successi si fanno sempre i sequel. Con Verdini e simili siamo
già a P3 e P4, e senza manco la P38. A che ti serve la pistola, quando sei al
già al comando di tutto quanto fa gola? Le banche, la Rai, anche la magistratura
che senza Berlusconi non fa più tanto la dura — capirai, dopo la clava di di
Napolitano per quel popò di cura… Il Piano di Rinascita Democratica di Mastro
Licio questo prevedeva: tenere tutti a libro mastro, tutto il Palazzo nel suo
capestro. Una dittaura sordida, ma morbida. Uno Stato Licio al dovere. Istituzioni, giornali, capitani d’industria e
generali dell’esercito. Lo Stato d’allora aveva reagito e Gelli aveva fallito:
lo stato pietoso e fallito d’oggi, Gelli lo avrebbe seguito. Mica per niente,
mentre lui è marcio in una tomba, la sua idea marcia che è un bomba. Stesso Piano,
stesso Palazzo: in una piazza Italia in cui però dormono tutti. Dal golpe
borghese siamo passati al colpo di sonno palese — di tutto il paese, che stanco e
sfiduciato ha solo voglia di abboccare come un tonno grosso così, di abbioccare
con un sonno lungo così. Solo voglia di darsi, per amo o per forza, a quella
lenza di Renzi: il piccolo fanfaniano Fiorentino, che nel matrimonio politico
colla Boschi porta in dote e in auge il masson-cattolicesimo aretino.
Testimone, anzi, giudice di nozze ad Arezzo, il procuratore Roberto Rossi. Il
pm che avrebbe dovuto indagare sui sotterfugi bancari fatto consulente — casualmente,
lungimirantemente — di Palazzo Chigi coi pretesti più vari. Così si fa: sì la do, la
solfa con cui la bella tipa Italia ti molla la topa senza menarla coi tempi da
Minima Moralia… Adesso lo chiamano partito della Nazione, ma a Licio potrebbero
almeno riconoscere che è partito per primo: concedere il brevetto dell’invenzione…
Un bel
quadro e un bel quadriglione, certo. La danza del potere che t’arreda tutta la
casa per le feste. Il bue e l’asinello Salvini, la pecorina deigli
obbligazionisti derubati dei quattrini, la mucca e il suo vitello, maria e…
cazzo, il bambinello! Momenti ce lo scordavamo. Fortuna che c’ha pensato
Bertone. Al Bambin Gesù, e anche a tutti gli altri bambini che non ci sono più:
morti di malattia, mentre lui coi soldi del loro ospedale ci si faceva un
attico che manco un boss di Scampia. Del resto, o di campane o di Campania,
alla fine sono sempre don che per dindi fanno dan… Quadri tappeti e dipinti per
il soggiorno del cardinale, mentre mio figlio soffre in un corridoio
d’ospedale. Il bambino al centro di una rappresentazione dell’infamità, più che
della natività. Altroché paura dei pazzi dell’Isis: forse è per pura repulsione
di questi pezzi di merda e di collezione De Pisis, se all’apertura della porta
santa c’era meno gente che alla chiusura di un concerto di Valerio Scanu…
Altroché
Natale di Crisis, natali di una crisi. Morale e materiale, senza fine: e col
solo scopo di lucrare sulla paura; morale e umorale, senza senso pietà e
decenza. Al punto che il ministro danese Inger Stojberg ha potuto impunemente
proporre ai profughi di pagare anche con
gioielli e averi di famiglia la loro accoglienza nel suo paese: per
rilanciare l’ideona delle camere a gas, la simpatica signora aspetta l’invito
nella stanza degli orrori e delle arie di Del Debbio… Nell’attesa di
Retequattro, signora ministro, si becchi quattro svastiche piene sul nostro Nazi-advisor.
E si accomodi pure nel presepe precomatoso e malvivente con Salvini. E con i
nostri complimenti e auguri.
Auguri di buon
Natale di scemi di guerra fra poveri. Poveri di soldi contro poveri di solidi
principi e di qualche minimo scrupolo. Da progressisti, noi del Papaluto
vorremmo che la storia fosse una linea retta: ma ci sembra sempre più un cerchio,
un circolo vizioso che retta ne dà solo al peggio dentro di noi. Siamo senza
pietà, ma in compenso ne facciamo tantissima — agli altri, e mai a noi stessi.
Non ci facciamo problemi, a non farci pietà: a disfarci della poca umanità che
abbiamo. Ogni volta che è successo, siamo finiti preda di qualche ossesso coi
baffetti o i baffoni osannato da sanguinari coglioni. Qui dal Papaluto noi
speriamo bene, e spariamo cazzate mica tanto. L’Occidente laico e aperto e
tollerante sta chiudendo di nuovo la testa e le frontiere: l’ultimo che fanno
entrare spenga la luce. Anzi no, col buio da pestaggi che c’è meglio ne accenda
una. Persino di Natale: purché di speranza, perché la disperanza non vinca. E l’arroganza
oscurantista non trionfi, come ci sembra farà. Tanti auguri a voi, e a noi, di
buone feste. E di cattivo pronostico.