Ingrata bastarda e tosta, la vita
da Gran Capitone della Truppa e della Troppa Trippa Leghista: vuoi portare la
sfida a tutti, e finisce che ti porti sfiga da solo. Fai il comizione
ultrasovranista e fascio-fashion a Milano, pensi di fare il pieno, ma piazza
Duomo è mezza vuota, il pieno lo fai di fischi da mezzo fiasco, però in
compenso il governo austriaco-putiniano e amico (ma più dell’amico Vladimir…)
te lo trovi mezzo caduto come un sacco di patate con contorno di puttanate e Putinate. Pubblichi un libro (vabbé…) con Altaforte — Casa(Editrice)pound su carta
svasticata — e l’unica cosa davvero Alta e Forte che ottieni è la riscoperta
dell’antifascismo e dell’apologia di fascismo: reato che a un Salone del Libro
— che persino in questa Italietta duce e
amara mica può essere ufficialmente un Salottino del Labaro — non è ospitabile
né standabile né tantomeno standuppabile, applaudito o gradito. Come cambiano
le cose. Un attimo prima attiro la folla, adesso giusto la jella. Nella mia
plagiografia volevo raccontarvi come nasco paladino perché da bambino mi hanno
fottuto uno Zorro, e da Capitano mi ritrovo come un Sergente Garcia panzuto che
da uno Zorro qualsiasi — fuori da e come un balcone — è costantemente
(s)fottuto. Sic transit gloria immundi.
In Italia lo Zozzone Uomo d’Immondo piace, può farsi passare per Zorro Batman e
persino Capitano anziché Capitone, ma poi la festa passa e lui pure: da
anguillone buono giusto a Natale, da illustre coglione. Con Salvini si ripete
sempre la stessa (nostra) storia — sempre più in farsa, sempre più vera che
falsa, una tragicommedia che passano i secoli ma non passa da Berlusconi su su
(giù giù) fino a Mussolini. Da Piazza Venezia a piazzale Loreto, da Palazzo
Chigi via Segrate a pupazzo coglionato fra orgettone e olgettine segrete — come
non si cambia, in Italia, per morire dal ridere. Col Tamerlano Taragno, qua,
uguale: prima ogni sparata in divisa o in foto sparata e condivisa gli tornava
indietro come guadagno: recentemente tutto gli torna nel didietro come un
ombrello pure aperto, e anche con una certo ostinato impegno. Tutta quell’approssimazione
da applausone, quel pressappocchismo e qualunquismo da bene o male che gli e ci
andava benissimo, adesso gli va tutto (a) male o comunque non benissimo... Dall’effetto
boom all’effetto boomerang è un attimo, eh. Prima con qualunque cacata facevi
il botto, ora ogni volta che provi a fare il botto viene fuori una cacata. Ieri
omaggiato come il più ganzo da tutti zitti e schiavetti, oggi sputtanato pure
dall’ultimo dei giornalisti — cioè Giletti. Anche se il Capitan Fracazzo accusa Di Maio di
parlare come Renzi, è lui che inizia a somigliargli. E non solo per il nome, gli
atteggiamenti da bulli sfigati che prima fra le D’Urso e il brusco erano belli
e squisiti, per il bel numero eccome degl’inquisiti. Chiamatela sindrome dei
Matteo. Inizi a fare, poi a strafare, alla fine inizi a stufare: ma te ne
accorgi solo quando la gente stufa ti ha già mandato a strafare da un’altra
parte, possibilmente in culo. Per adesso no, per le Europee nemmeno, magari
perché per un pelo di foga e un momento (di gloria) ti salvi con una Mancia su
Roma da 80 euro o con manciate di 80 tweet anti-tutto — dall’ultimo papato al
primo magistrato che passa ma non te le passa — a kalashnikov e al minuto da
neuro. Ma, per l’appunto, siamo solo all’inizio — c’è ancora tutta la partita,
i tempi regolamentari, i supplementari, eppoi in caso i rigori del supplizio…
Ma il risultato è scritto. Nei libri di storielle, prim’ancora che di storia. Puoi
fare il poliziotto cattivo e il puliziotto lindo e buono finché vuoi,
raccontare la barzelletta del tipo supertosto e superonesto fintanto che trovi
pascoli pecore e buoi; ma i disparati affari dei Siri dei Rixi e dei Fontana
continuano a puzzare, i disperati dall’Africa continueranno ad arrivare:
verrano i nodi al pettine, i rodi al culo arriveranno a volo d’uccello padulo
più che di rondine, e l’incazzoso e volubile elettore (dito) medio ti farà
segno che basta e farà il resto per farti capire che il tuo nuovo ha già fatto
la ruggine. Da noi (dis)funziona così. L’Italia s’innamora, poi si disamora, e
prima o poi finisci in procura o a capetto sotto nella spazzatura. E quando il
processo comincia, niente niente Rosario e niente appello: non hai speranze di
sfangarla manco se sul palco ti porti Fiorello; hai voglia d’invocarla per non
giocarti la vittoria: è già tanto se ringrazi la madonna di giocare per la salvezza…
E per l’appunto siamo solo
all’inizio — della fine — di questo governo, col famoso contratto di che più
che altro oramai sembra paralizzante come una contrattura e depallizzante come
una rottura degli ovetti di pasquale mazza centrale, oltretutto senza rimedio e
senza cura. E forse già siamo ai titoli di coda (e d’orecchie: da somaro) anche
del suo ominicchio forte, sì, ma più che altro di taglia e di chiacchiera a
meraviglia. Perché va bene tutto, ma poi va che ogni governo ha un’agenda; e
persino questo esecutivo, che più che altro sembra uno scordarello ed evasivo a
tutta propaganda, non può averne una che sembra la smemoranda. Puoi
raccontartela finché vuoi, puoi dirgli panzane su panzane da Padova a Pachino
vendendole come pane pane e vino al vino, puoi credere che l’elettorato
coglionabile all’infinito causa prevalenza del cretino… Ma il conto e la realtà
dei conti arriva per tutti, prima o poi. Hai voglia a stare sempre in
promozione, più sui social che al ministero, che come non ti abbiano nominato
Ministro dell’Instagram — o degl’Interni in contumacia e ad interim, via social
e telegram — ancora è un mistero! Da Nord a Sud si spara e si ammazza per
strada, la mafia continua a ingrassare e la politica a grassare nella sua mangiatoia a cui manca
la vergogna ma mai la biada: e tu quanto vuoi sperare di durare, sparando ogni
secondo l’ultima cazzata all’ultima moda?! A che ti serve lanciare proclami-trailer
da promo con tanto di teaser per il taser ai poliziotti se — come ammette
persino la buonanima morta di Tria, il ministro fantasma dell’Economia, della
Minaccia mica tanto fantasma dell’Eutanasia — scattati tagli tagliole e
frattaglie da 24 miliardi, fra manovre bis e clausole di salvaguardia e ladri,
la bolletta della pistola elettrica dovranno pagarsela loro?!
E se questo è l’uomo forte, non
vi diciamo Giggino Di Maio, ovverosia la moglie cornuta e incazzata nonché
l’ossesso debole. Il fissato colla legalità a scoppio ritardato e a scambio
ridicolo e fallato. Il baro che ha barattato l’impunità di Salvini — finendo a
votare contro la magistratura come uno dei tanti Berluscloni — coll’insostenibilità
di un sottosegretario-bancarottiere che al governo manco ci doveva stare: e che
sempre troppo tardi si leva dai coglioni, e quindi sulla rimozione forzata e
tardiva c’è poco da vantare. Epperforza che sono contro la Tav, visto che gli
scambi proprio non li sanno fare… Ora che arrivano le elezioni vuoi scambiare
un brutto ceffo per un buonissimo affare, il salva-Salvini come una
contropartita truccata e controtutti assolutamente da rifare? Ora te la vuoi
prendere con Siri, se il sistema operativo del 5stelle al governo è da
merdafonino craccato?! Astuta trovata per rifarsi una verginità elettorale: in
questo modo hanno più possibilità Belen Malgioglio e Berlusconi di rifarsi una
vagina penale o una verginità anale…
La verità è che questo governo è
come Notre Dame: fa fuoco e fiamme, ma più che altro fumo, mentre nessuno
ammette — e più di qualcuno omette: vero Monsieur Le President? — le proprie
colpe nel disastro. Che tu sia Macron o un qualunque più simpatico e pure più
capace MicroMinchion, l’incuria porta all’inculia.
Mentre fai la guerra in Libia o alla Lega come un Rambo Rimba, ti tocca
prendere — in quel posto — e andare a casa, anche se qualche provvedimento è stato
giusto. E qualcun altro invece solo proposto, poi posposto, poi dimenticato o
riposto perché troppo poco conveniente edibile o disonesto. Alla mensa del
sottogoverno sempre aperta al patteggiamento e al mangiamento, c’è di più e di
meglio d’una scatoletta di tonno da aprire tipo Parlamento. Roba che è da scempio,
più che da esempio. Il reddito di cittadinanza doveva essere l’inizio di
qualcosa, è stata la fine dell’interesse per una seria politica sociale — e non
solo social — del lavoro. Dopo Genova si voleva togliere la concessione ad
Autostrade, ora se tutto va bene(tton) gli si darà anche Alitalia… E non
contiamo — anche se contano eccome — gli
scazzi, le bizze, gli scatti d’ira di carriera e da ultim’ora nei telegiornali
dei due alleati-avversari, dei due nemici-amici mai che sono braccia rubate
all’agricoltura e date alla campagna: elettorale. Divisi distanti e l’un
l’altro invisi più che mai, nel frattempo trovano il Che Tempo Che Fa di
spartirsi poltrone scambiarsi paroline e litigare sulla Rai. Il governo del
cambiamento — d’idee cifre autoblù ogni 5 minuti, o poco più — sta su perché si
miracola ogni giorno con qualche gabola, grazie alla cura del rinvio e della
supercazzola, perché fino alle europee tira ad accampare: scuse. Dopo, ciao. Ma
fino ad allora andiamo colla solita sceneggiata, coll’Italia al solito
saccheggiata, mentre il Mentegatto e la Golpe si spazzolano i posti, fingono di
non fingere di litigare facendo commedie da banda degli onesti, spolpano
s’ingozzano e s’incolpano in un copione da Spolpfiction
scrauso che nemmeno il Tarantino (quello d’oggi alla Cannes del gas, e non
dell’Ilva…) più scarso, dei più ridicoli eppure tristi. Ma non vogliamo parlare
di questi.
O meglio. Non solo, non così, non
come gli altri. Non coi soliti schemini che fanno tutti, dai pro-Salvini ai
filo-Giggini, dai più sgamati ai più cretini. Governissimi, governicchi,
ribaltoni oppure elezioni? Il post-voto, il dopo europee in anteprima, il
post-tutto che al postutto lascia tutto come prima? No grazie.
Meno sgarzuli garruli e
cazzulleggianti dei Cazzullo sempre a galla emmai a mollo, meno selfmenator men e grami degli ominosi
ometti alla Gramellini, noi del Papaluto — come si usa oggi, e siccome siamo
immodesti e cretini ma meno limitati o svegognati di chi tiene rubriche o le fa
tenere a Luciano Moggi — vogliamo fare i
distaccati, i sapienti, i saputi vaganti che spiegano l’arcano al(el’)lettorato
che resta ammirato (o annoiato…) e muto. Insomma vogliamo fare un po’ di
autobiografia e cazzi nostri, spacciandovela però per alta sociopolitologia che
in confronto Dahrendorf e Bauman sono Amici
e I Fatti Vostri.
Allora — a proposito di gente
minuscola ma che bara maiuscola — un po’ di tempo fa siamo stati a Bari, il
posto giusto per spiegare come imbrogliano le carte e c’imbrigliano a morte
lorsignori. 360 chilometri da casa nostra, naturalmente in macchina, perché a
spostarti in treno sulla dorsale (sco)jonica prima di arrivare fai in tempo a
morire di vecchiaia tu assieme al bambino in pancia alla signora incinta che ti
sta vicino. Poi, siccome amareggiarci non ci basta mai, c’è venuta la
curiosità. Ma a morirci, quanto ci si metterà? 360 km, almeno due treni o un
pullman una carrozzella e un monopattino, non meno di 7 ore tragicomodamente
tendenti alle 8 o 9. A seconda dei casi, delle coincidenze, nel senso dei treni
e delle botte di culo: stime della stimatissima(?) app di Trenitalia. Al
che (strano, per noi del Papaluto…)
dallo sconforto siamo passati allo scorbuto. Un attacco di rabbia da ictus, ‘na
botta di conti di racconti e di memoria da raptus. Ci siamo ricordati che oltre
vent’anni fa per andare a Taranto alla visita militare (sempre 300 chilometri
circa) avevamo impiegato oltre cinque ore. Allora ci era sembrata un’avventura
allucinante: oggi sarebbe una fortunona un lusso e un progresso, allucinante.
Perché il treno era quasi un merci dei più marci, però era uno. Diretto, un po’ come il calcio nelle palle e lo sfogo sulla
pelle che ti arriva a pensarci oggi. Sulla tratta Bari Centro-Bari sempre al
centro e in mezzo, si va più piano oggi di vent’anni fa: almeno con un certo
mezzo, nonché un certo olezzo. Puzza di marcio, di vecchio, di carri bestiame
per i pendolari perché altrove o in zona pendono e urgono altre bestialità e
best-offer come affari; tanfo di paese che non cambia mai né marcia né marci,
né binari né strada, di strapaese a scartamento ridotto ma scazzamento a mille
per com’è ridotto. Tre regioni, una delle dieci città più importanti d’Italia,
svariati capoluoghi e milioni di cittadini che possono scegliere: o la macchina
o il cavallo, ecologico come il treno ma molto più veloce. Può sembrare un’inezia,
forse pure un’idiozia — sì, ma solo a distratti tuttoparlantisi addosso e
corrotti politicanti di passo che da tempo scambiano il disagio sociale per un’idiozia
o quantomeno un’inezia. Ci sono i mercati, i potenti, la Bce, da mettere nell’articolo
e nel Caffè… Questa supposta cazzata invece è un indizio, e pure un inizio: per
capire da dove ha cominciato finire dov’è finito, ‘st’inculata di paese-supposta.
Sono passati più di vent’anni, sono passati governi di tutti i colori, e
qualche milione di persone tra Reggio e Taranto — tutto sommato, Ilva inclusa —
hanno meno lavoro, meno servizi e trasporti, ma in compenso più tumori più
servizi funebri e più morti. Come progresso non c’è male, come progressismo da
cesso pure: e per essere in questa situazione, è anche del tutto (a)normale.
E qui arriviamo all’altro cenno
autobiografico non meno che cunno. Per amore delle cose unte che ti restano
sullo stomaco però ogni tanto bisogna fare (tipo mangiarsi la pizza di Conca:
ma qui bisogna essere davvero perversi e Piopolesi, per capire) noi abbiamo
votato Zingaretti alle primarie. Non ce ne siamo (ancora) pentiti, ma diciamo
che dalle prime mosse ci sentiamo perplessi se non già giù di questione morale
o fatti fessi. Se Renzi puntava tutto sull’apparenza e la buona sostanza di
belle ma cattive compagnie, il segretario Montalbano ha puntato su un non
apparire ma lavorare che in apparenza pare inerzia e inapparenza: una latitanza
per non disturbare che rispetto a prima ha cambiato la forma, ma non la
sostanza: e che alla fine brilla per assenza e inconsistenza, e disturba uguale.
Per dire. L’unico atto pubblico e concreto — oramai due mesi fa — è stato
andare dritto sparato a Torino a fare il SìTav. E quindi indirettamente il Si Fotta
Taranto, la dorsale Jonica e la colossale questione del Meridione più
abbandonato d’un cane ad agosto ma accudito da tarantelle
retorico-propandistiche che farebbero girare i coglioni anche a un santo.
Fregarsene di qualche milione di persone senza (più) il treno, colla scusa del
treno dare qualche altro milione al frega-frega delle solite persone. Bell’idea
di cambiamento. Stare sempre col mercato, colle logiche delle banche, mai stare
a sentire le coliche fra le bancarelle al mercato: perché, si sa e si fa,
bisogna aiutare l’aiutato o il suo amministratore/ammiratore delegato... Dicono
che le ideologie non ci sono più, i vecchi partiti nemmeno, e in cambio abbiamo
il partito unico degli affari che come Idologia
da adorare c’ha l’imprenditoria bollita e corrotta: da soddisfare mettendo
a friggere a dorare e disperare che non ce la fa a pagare la bolletta. Il tutto
mentre fra Sala Fontana e la Comi, fra inquisiti e indagati, la Milano da Bere
non c’è più ma Tangentopoli e la Lombardia da mangiare ci sono eccome. Che
impressione, st’impressione per cui qua negli anni non cambia niente, se non in
peggio, se non il fatto che pare di stare a gennaio pure a maggio. Eppoi dice
che la gente si butta a destra, a grillista, a sinistra o sinistro sovranista! Con
questi che non stanno mai coi deboli ma coi forti, che portano soccorso rosso —
oramai solo di vergogna, e sempre meno spesso — a chi ha già tutto, tranne i
torti; che fanno i pomicioni coi Pomicini, che si girano i pollici mentre a
tutti gli (ex) elettori del Pd in Umbria girano i coglioni per la pantominchia
Mi dimetto-Non Mi Dimetto-Mi Dimetto Più tardi Ora Sono A Letto della Catiuscia
Marini. Ma allora meglio Valeria che — rispetto a Renzi il bue che querela
l’asino Salvini o al Callido/Squallido Calenda che s’imbuca ai comizi degli
altri sperando che qualcuno lo riconosca e la qualcosa qualche voto misto
pernacchia gli renda — come candidata-civetta è meno improponibile e più seria.
Eppure. Come si vede — e là si
vota, e da noi si nota ma non ci si crede — in Spagna e Portogallo vincere e
convincere senza convivere col peggio dell’affarismo a cui fare da palo o da
paggio, si può. Ma occorre essere credibili e coerenti più che confusi e
felici, collusi contanti e contenti; cambiare idee, nomi, ma soprattutto strane
frequentazioni e mescolanze, alleanze politiche e comportamenti. Ricominciare
da capo, non solo dal Capo e dai capetti. Altrimenti per rabbia o disgusto, per
disperazione o per dispetto, come in un eterno Heil-Halloween la gente voterà
questo e pure il prossimo matto Matteo aspirante ducetto o scherzetto. E siamo
alle elezioni, che di solito lasciano dure lezioni, che però durano sempre
troppo poco: precise alle erezioni. Non per niente anche stavolta — europeo o
italiano che sia, da Casapound a casa Meloni che candida il nipotino di
Mussolini che fa sempre tenerezza e simpatia — il voto propende per un
#iovotoitaliano e antieuropeo. Perché i governi del cambiamento cambiano dopo
non aver cambiato nulla o non abbastanza, vanno o restano, me le cose che non
vanno quelle restano. E pure in abbondanza, in aumento di cancrena e non
curanza. Quello che non si vuole capire è che in Italia come in Europa — e come
probabilmente sarà anche dopo domenica 26 — si dice si teme o si paventa che
possa cambiare tutto, che ci sia un golpe democratico o solo un governo della ggente, ma poi la verità (e la paura) è
che — sotto tutta sta fuffosofia ammanicata ed elitista o avventata e populista
o avvinazzata etilista — non ci sia e non si riesca a cambiare niente. E a quel
punto — se i treni dal paese spariscono anche più velocemente dei soldi e e
delle speranze mese per mese — la gente crede a tutto. Per i suoi problemi veri
almeno quanto la propria rabbia, marcia corre e ricorre a qualunque soluzione:
falsa e sfacciata, qualunquista e svasticata, apertamente razzinazionalista o
criptonazista. Una soluzione purchessia, pure Finale. I lager per una lager. Se
in cambio della mia rabbia mi danno la speranza e magari mi fanno pure la spesa
e il pieno di bile e di birretta senza cui non si può stare senza, altrochè i
Nazisti dell’Illinois: io voto pure i fasciondranghetisti boys, mando
falangisti fancazzisti e fan dei razzisti a Bruxelles da Como a Cosenza. Questa
è la verità. Nuda che ci lascia in mutande; cruda che ci mangia e ci (cal)pesta
le convinzioni le prolusioni e le illusioni a sangue. Se pensi più alle
periferiche e alle banche che alle periferie, ai signori delle Usb o delle Ubs
più che alla signora che per cui è Bulgari pure l’Oviesse, ovvio che quei
quartieri votano bulgari pure per le Essesse. E hai voglia a riaprire sezioni a
Casal Bruciato: se Zingaretti non si occupa di chi occupa la casa e pesta i
piedi o i vicini al grido di Zingari Maledetti, qui è già bruciato tutto.
L'ideale europeista e
progressista è in crisi non per i suoi veri nemici che l'attaccano a male
parole, ma per i suoi pessimi amici che la difendono a belle parole e basta.
Fatti concreti, non atti vuoti. Baste cerimonie, querelle e querimonie per
coprire latrocini inefficienze e acrimonie. La cultura democratica prima dell’incultura
da inculata ragionieristico-economica. Al sogno — e anche al bisogno — d’Europa
occorrono verità generosità e giustizia, non furbizia contabilità e malizia. Le
storture vanno denunciate e punite, non incoraggiate imboscate e/o premiate. I
francesi e i tedeschi non possono fare i portoghesi — fare gli sboroni le
regole e sgli scrocconi perché siano gli altri a pagare per loro, fare i
sibariti e i sodomiti col culo degli altri anziché con quelle belle chiappe
d’oro. Ungheresi e polacchi coi fondi europei a momenti si fanno ricchi e
sceicchi, ma si permettono di toccare il fondo dell’autoritarismo razzifascista
da cose turche liquidando e coglionando i (pochi) richiami Ue come ué-ué di
piagnistei da radical-sciocchi. Ennò, se ti prosciughi i milioni, poi
t’asciughi anche i cazziatoni. Più mano ferma, più rispetto della sostanza e
pure della forma, meno botte da Orban e brutta compagnia. Diritti civili e
doveri democratici: questo ci vuole, perché il vecchio continente non sia solo
il paradiso fiscale e fecale per nuovi prepotenti da canti nazicattolici e
vecchi incontinenti coi conti caraibici. O così o l’Europa resta un guscio
vuoto, che tutti possono prendere per il culo prendendoci pure uno stipendio e
più di qualche voto; o così o la costruzione europea sarà solo una cattedrale
nel deserto, anche se nel centro di Parigi. Per questo Notre Dame è davvero un
simbolo del nostro dramma, è davvero Notre
Drame: perché non ce ne curiamo, e la mandiamo al rogo nei fatti mentre a
parolone e parabole paracule la (bene)diciamo come un modello: ma al massimo è
un cazzo di rompicapolavoro complicato e inutile, uno scheletro bruciato che
non impedirà nuove guerre vecchie aberrazioni e nuove generazioni portate al
macello. Bisogna ragionare sul tempo futuro — anche se spaventa o latita — se
non si vuole che per un certo ideale democratico e progressista sia ancora,
sempre e per sempre tempo d’essere il morituro che saluta o il fottituro che
anziché agire in fretta ancora esita. Ma di questi problemi, di questi dilemmi
che attendono risposta ma non aspettano ancora molto prima di diventare drammi,
non parla nessuno. Mondiali europee o nazionali, qui da noi si comizia e ci si
delizia con discorsi da pianerottolo Marshall irrilevanti livorosi e
imbarazzanti pure per le comunali di Belcastro o di Belluno. La situazione è
talmente da piangere che a vedere Silvione ringalluzzito da bene bravo cialis
in neurovisione, non sai se ridere o rimpiangere. Forse era persino meglio lui
dei suoi cattivi imitatori, dei suoi incattiviti cloni ex clown e successori. Perché
il problema non sono i cazzari che colle elezioni vanno e vengono, ma i cazzi
amari che senza soluzioni che somiglino a rivoluzioni — morali, culturali,
materiali — verranno di sicuro e da soli non se ne andranno. Restando in
(s)fiduciosa attesa, come sempre e più che mai: buona notte della ragione, buon
voto e buona (s)fortuna.
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