giovedì 23 maggio 2019

SPOLPFICTION


Ingrata bastarda e tosta, la vita da Gran Capitone della Truppa e della Troppa Trippa Leghista: vuoi portare la sfida a tutti, e finisce che ti porti sfiga da solo. Fai il comizione ultrasovranista e fascio-fashion a Milano, pensi di fare il pieno, ma piazza Duomo è mezza vuota, il pieno lo fai di fischi da mezzo fiasco, però in compenso il governo austriaco-putiniano e amico (ma più dell’amico Vladimir…) te lo trovi mezzo caduto come un sacco di patate con contorno di puttanate  e Putinate. Pubblichi un libro (vabbé…) con Altaforte — Casa(Editrice)pound su carta svasticata — e l’unica cosa davvero Alta e Forte che ottieni è la riscoperta dell’antifascismo e dell’apologia di fascismo: reato che a un Salone del Libro —  che persino in questa Italietta duce e amara mica può essere ufficialmente un Salottino del Labaro — non è ospitabile né standabile né tantomeno standuppabile, applaudito o gradito. Come cambiano le cose. Un attimo prima attiro la folla, adesso giusto la jella. Nella mia plagiografia volevo raccontarvi come nasco paladino perché da bambino mi hanno fottuto uno Zorro, e da Capitano mi ritrovo come un Sergente Garcia panzuto che da uno Zorro qualsiasi — fuori da e come un balcone — è costantemente (s)fottuto. Sic transit gloria immundi. In Italia lo Zozzone Uomo d’Immondo piace, può farsi passare per Zorro Batman e persino Capitano anziché Capitone, ma poi la festa passa e lui pure: da anguillone buono giusto a Natale, da illustre coglione. Con Salvini si ripete sempre la stessa (nostra) storia — sempre più in farsa, sempre più vera che falsa, una tragicommedia che passano i secoli ma non passa da Berlusconi su su (giù giù) fino a Mussolini. Da Piazza Venezia a piazzale Loreto, da Palazzo Chigi via Segrate a pupazzo coglionato fra orgettone e olgettine segrete — come non si cambia, in Italia, per morire dal ridere. Col Tamerlano Taragno, qua, uguale: prima ogni sparata in divisa o in foto sparata e condivisa gli tornava indietro come guadagno: recentemente tutto gli torna nel didietro come un ombrello pure aperto, e anche con una certo ostinato impegno. Tutta quell’approssimazione da applausone, quel pressappocchismo e qualunquismo da bene o male che gli e ci andava benissimo, adesso gli va tutto (a) male o comunque non benissimo... Dall’effetto boom all’effetto boomerang è un attimo, eh. Prima con qualunque cacata facevi il botto, ora ogni volta che provi a fare il botto viene fuori una cacata. Ieri omaggiato come il più ganzo da tutti zitti e schiavetti, oggi sputtanato pure dall’ultimo dei giornalisti — cioè Giletti.  Anche se il Capitan Fracazzo accusa Di Maio di parlare come Renzi, è lui che inizia a somigliargli. E non solo per il nome, gli atteggiamenti da bulli sfigati che prima fra le D’Urso e il brusco erano belli e squisiti, per il bel numero eccome degl’inquisiti. Chiamatela sindrome dei Matteo. Inizi a fare, poi a strafare, alla fine inizi a stufare: ma te ne accorgi solo quando la gente stufa ti ha già mandato a strafare da un’altra parte, possibilmente in culo. Per adesso no, per le Europee nemmeno, magari perché per un pelo di foga e un momento (di gloria) ti salvi con una Mancia su Roma da 80 euro o con manciate di 80 tweet anti-tutto — dall’ultimo papato al primo magistrato che passa ma non te le passa — a kalashnikov e al minuto da neuro. Ma, per l’appunto, siamo solo all’inizio — c’è ancora tutta la partita, i tempi regolamentari, i supplementari, eppoi in caso i rigori del supplizio… Ma il risultato è scritto. Nei libri di storielle, prim’ancora che di storia. Puoi fare il poliziotto cattivo e il puliziotto lindo e buono finché vuoi, raccontare la barzelletta del tipo supertosto e superonesto fintanto che trovi pascoli pecore e buoi; ma i disparati affari dei Siri dei Rixi e dei Fontana continuano a puzzare, i disperati dall’Africa continueranno ad arrivare: verrano i nodi al pettine, i rodi al culo arriveranno a volo d’uccello padulo più che di rondine, e l’incazzoso e volubile elettore (dito) medio ti farà segno che basta e farà il resto per farti capire che il tuo nuovo ha già fatto la ruggine. Da noi (dis)funziona così. L’Italia s’innamora, poi si disamora, e prima o poi finisci in procura o a capetto sotto nella spazzatura. E quando il processo comincia, niente niente Rosario e niente appello: non hai speranze di sfangarla manco se sul palco ti porti Fiorello; hai voglia d’invocarla per non giocarti la vittoria: è già tanto se ringrazi la madonna di giocare per la salvezza…

E per l’appunto siamo solo all’inizio — della fine — di questo governo, col famoso contratto di che più che altro oramai sembra paralizzante come una contrattura e depallizzante come una rottura degli ovetti di pasquale mazza centrale, oltretutto senza rimedio e senza cura. E forse già siamo ai titoli di coda (e d’orecchie: da somaro) anche del suo ominicchio forte, sì, ma più che altro di taglia e di chiacchiera a meraviglia. Perché va bene tutto, ma poi va che ogni governo ha un’agenda; e persino questo esecutivo, che più che altro sembra uno scordarello ed evasivo a tutta propaganda, non può averne una che sembra la smemoranda. Puoi raccontartela finché vuoi, puoi dirgli panzane su panzane da Padova a Pachino vendendole come pane pane e vino al vino, puoi credere che l’elettorato coglionabile all’infinito causa prevalenza del cretino… Ma il conto e la realtà dei conti arriva per tutti, prima o poi. Hai voglia a stare sempre in promozione, più sui social che al ministero, che come non ti abbiano nominato Ministro dell’Instagram — o degl’Interni in contumacia e ad interim, via social e telegram — ancora è un mistero! Da Nord a Sud si spara e si ammazza per strada, la mafia continua a ingrassare e la politica  a grassare nella sua mangiatoia a cui manca la vergogna ma mai la biada: e tu quanto vuoi sperare di durare, sparando ogni secondo l’ultima cazzata all’ultima moda?! A che ti serve lanciare proclami-trailer da promo con tanto di teaser per il taser ai poliziotti se — come ammette persino la buonanima morta di Tria, il ministro fantasma dell’Economia, della Minaccia mica tanto fantasma dell’Eutanasia — scattati tagli tagliole e frattaglie da 24 miliardi, fra manovre bis e clausole di salvaguardia e ladri, la bolletta della pistola elettrica dovranno pagarsela loro?!

E se questo è l’uomo forte, non vi diciamo Giggino Di Maio, ovverosia la moglie cornuta e incazzata nonché l’ossesso debole. Il fissato colla legalità a scoppio ritardato e a scambio ridicolo e fallato. Il baro che ha barattato l’impunità di Salvini — finendo a votare contro la magistratura come uno dei tanti Berluscloni — coll’insostenibilità di un sottosegretario-bancarottiere che al governo manco ci doveva stare: e che sempre troppo tardi si leva dai coglioni, e quindi sulla rimozione forzata e tardiva c’è poco da vantare. Epperforza che sono contro la Tav, visto che gli scambi proprio non li sanno fare… Ora che arrivano le elezioni vuoi scambiare un brutto ceffo per un buonissimo affare, il salva-Salvini come una contropartita truccata e controtutti assolutamente da rifare? Ora te la vuoi prendere con Siri, se il sistema operativo del 5stelle al governo è da merdafonino craccato?! Astuta trovata per rifarsi una verginità elettorale: in questo modo hanno più possibilità Belen Malgioglio e Berlusconi di rifarsi una vagina penale o una verginità anale…

La verità è che questo governo è come Notre Dame: fa fuoco e fiamme, ma più che altro fumo, mentre nessuno ammette — e più di qualcuno omette: vero Monsieur Le President? — le proprie colpe nel disastro. Che tu sia Macron o un qualunque più simpatico e pure più capace MicroMinchion, l’incuria porta all’inculia. Mentre fai la guerra in Libia o alla Lega come un Rambo Rimba, ti tocca prendere — in quel posto — e andare a casa, anche se qualche provvedimento è stato giusto. E qualcun altro invece solo proposto, poi posposto, poi dimenticato o riposto perché troppo poco conveniente edibile o disonesto. Alla mensa del sottogoverno sempre aperta al patteggiamento e al mangiamento, c’è di più e di meglio d’una scatoletta di tonno da aprire tipo Parlamento. Roba che è da scempio, più che da esempio. Il reddito di cittadinanza doveva essere l’inizio di qualcosa, è stata la fine dell’interesse per una seria politica sociale — e non solo social — del lavoro. Dopo Genova si voleva togliere la concessione ad Autostrade, ora se tutto va bene(tton) gli si darà anche Alitalia… E non contiamo  — anche se contano eccome — gli scazzi, le bizze, gli scatti d’ira di carriera e da ultim’ora nei telegiornali dei due alleati-avversari, dei due nemici-amici mai che sono braccia rubate all’agricoltura e date alla campagna: elettorale. Divisi distanti e l’un l’altro invisi più che mai, nel frattempo trovano il Che Tempo Che Fa di spartirsi poltrone scambiarsi paroline e litigare sulla Rai. Il governo del cambiamento — d’idee cifre autoblù ogni 5 minuti, o poco più — sta su perché si miracola ogni giorno con qualche gabola, grazie alla cura del rinvio e della supercazzola, perché fino alle europee tira ad accampare: scuse. Dopo, ciao. Ma fino ad allora andiamo colla solita sceneggiata, coll’Italia al solito saccheggiata, mentre il Mentegatto e la Golpe si spazzolano i posti, fingono di non fingere di litigare facendo commedie da banda degli onesti, spolpano s’ingozzano e s’incolpano in un copione da Spolpfiction scrauso che nemmeno il Tarantino (quello d’oggi alla Cannes del gas, e non dell’Ilva…) più scarso, dei più ridicoli eppure tristi. Ma non vogliamo parlare di questi.

O meglio. Non solo, non così, non come gli altri. Non coi soliti schemini che fanno tutti, dai pro-Salvini ai filo-Giggini, dai più sgamati ai più cretini. Governissimi, governicchi, ribaltoni oppure elezioni? Il post-voto, il dopo europee in anteprima, il post-tutto che al postutto lascia tutto come prima? No grazie.

Meno sgarzuli garruli e cazzulleggianti dei Cazzullo sempre a galla emmai a mollo, meno selfmenator men e grami degli ominosi ometti alla Gramellini, noi del Papaluto — come si usa oggi, e siccome siamo immodesti e cretini ma meno limitati o svegognati di chi tiene rubriche o le fa tenere a Luciano Moggi  — vogliamo fare i distaccati, i sapienti, i saputi vaganti che spiegano l’arcano al(el’)lettorato che resta ammirato (o annoiato…) e muto. Insomma vogliamo fare un po’ di autobiografia e cazzi nostri, spacciandovela però per alta sociopolitologia che in confronto Dahrendorf e Bauman sono Amici e I Fatti Vostri.

Allora — a proposito di gente minuscola ma che bara maiuscola — un po’ di tempo fa siamo stati a Bari, il posto giusto per spiegare come imbrogliano le carte e c’imbrigliano a morte lorsignori. 360 chilometri da casa nostra, naturalmente in macchina, perché a spostarti in treno sulla dorsale (sco)jonica prima di arrivare fai in tempo a morire di vecchiaia tu assieme al bambino in pancia alla signora incinta che ti sta vicino. Poi, siccome amareggiarci non ci basta mai, c’è venuta la curiosità. Ma a morirci, quanto ci si metterà? 360 km, almeno due treni o un pullman una carrozzella e un monopattino, non meno di 7 ore tragicomodamente tendenti alle 8 o 9. A seconda dei casi, delle coincidenze, nel senso dei treni e delle botte di culo: stime della stimatissima(?) app di Trenitalia. Al che  (strano, per noi del Papaluto…) dallo sconforto siamo passati allo scorbuto. Un attacco di rabbia da ictus, ‘na botta di conti di racconti e di memoria da raptus. Ci siamo ricordati che oltre vent’anni fa per andare a Taranto alla visita militare (sempre 300 chilometri circa) avevamo impiegato oltre cinque ore. Allora ci era sembrata un’avventura allucinante: oggi sarebbe una fortunona un lusso e un progresso, allucinante. Perché il treno era quasi un merci dei più marci, però era uno. Diretto, un po’ come il calcio nelle palle e lo sfogo sulla pelle che ti arriva a pensarci oggi. Sulla tratta Bari Centro-Bari sempre al centro e in mezzo, si va più piano oggi di vent’anni fa: almeno con un certo mezzo, nonché un certo olezzo. Puzza di marcio, di vecchio, di carri bestiame per i pendolari perché altrove o in zona pendono e urgono altre bestialità e best-offer come affari; tanfo di paese che non cambia mai né marcia né marci, né binari né strada, di strapaese a scartamento ridotto ma scazzamento a mille per com’è ridotto. Tre regioni, una delle dieci città più importanti d’Italia, svariati capoluoghi e milioni di cittadini che possono scegliere: o la macchina o il cavallo, ecologico come il treno ma molto più veloce. Può sembrare un’inezia, forse pure un’idiozia — sì, ma solo a distratti tuttoparlantisi addosso e corrotti politicanti di passo che da tempo scambiano il disagio sociale per un’idiozia o quantomeno un’inezia. Ci sono i mercati, i potenti, la Bce, da mettere nell’articolo e nel Caffè… Questa supposta cazzata invece è un indizio, e pure un inizio: per capire da dove ha cominciato finire dov’è finito, ‘st’inculata di paese-supposta. Sono passati più di vent’anni, sono passati governi di tutti i colori, e qualche milione di persone tra Reggio e Taranto — tutto sommato, Ilva inclusa — hanno meno lavoro, meno servizi e trasporti, ma in compenso più tumori più servizi funebri e più morti. Come progresso non c’è male, come progressismo da cesso pure: e per essere in questa situazione, è anche del tutto (a)normale.

E qui arriviamo all’altro cenno autobiografico non meno che cunno. Per amore delle cose unte che ti restano sullo stomaco però ogni tanto bisogna fare (tipo mangiarsi la pizza di Conca: ma qui bisogna essere davvero perversi e Piopolesi, per capire) noi abbiamo votato Zingaretti alle primarie. Non ce ne siamo (ancora) pentiti, ma diciamo che dalle prime mosse ci sentiamo perplessi se non già giù di questione morale o fatti fessi. Se Renzi puntava tutto sull’apparenza e la buona sostanza di belle ma cattive compagnie, il segretario Montalbano ha puntato su un non apparire ma lavorare che in apparenza pare inerzia e inapparenza: una latitanza per non disturbare che rispetto a prima ha cambiato la forma, ma non la sostanza: e che alla fine brilla per assenza e inconsistenza, e disturba uguale. Per dire. L’unico atto pubblico e concreto — oramai due mesi fa — è stato andare dritto sparato a Torino a fare il SìTav. E quindi indirettamente il Si Fotta Taranto, la dorsale Jonica e la colossale questione del Meridione più abbandonato d’un cane ad agosto ma accudito da tarantelle retorico-propandistiche che farebbero girare i coglioni anche a un santo. Fregarsene di qualche milione di persone senza (più) il treno, colla scusa del treno dare qualche altro milione al frega-frega delle solite persone. Bell’idea di cambiamento. Stare sempre col mercato, colle logiche delle banche, mai stare a sentire le coliche fra le bancarelle al mercato: perché, si sa e si fa, bisogna aiutare l’aiutato o il suo amministratore/ammiratore delegato... Dicono che le ideologie non ci sono più, i vecchi partiti nemmeno, e in cambio abbiamo il partito unico degli affari che come Idologia da adorare c’ha l’imprenditoria bollita e corrotta: da soddisfare mettendo a friggere a dorare e disperare che non ce la fa a pagare la bolletta. Il tutto mentre fra Sala Fontana e la Comi, fra inquisiti e indagati, la Milano da Bere non c’è più ma Tangentopoli e la Lombardia da mangiare ci sono eccome. Che impressione, st’impressione per cui qua negli anni non cambia niente, se non in peggio, se non il fatto che pare di stare a gennaio pure a maggio. Eppoi dice che la gente si butta a destra, a grillista, a sinistra o sinistro sovranista! Con questi che non stanno mai coi deboli ma coi forti, che portano soccorso rosso — oramai solo di vergogna, e sempre meno spesso — a chi ha già tutto, tranne i torti; che fanno i pomicioni coi Pomicini, che si girano i pollici mentre a tutti gli (ex) elettori del Pd in Umbria girano i coglioni per la pantominchia Mi dimetto-Non Mi Dimetto-Mi Dimetto Più tardi Ora Sono A Letto della Catiuscia Marini. Ma allora meglio Valeria che — rispetto a Renzi il bue che querela l’asino Salvini o al Callido/Squallido Calenda che s’imbuca ai comizi degli altri sperando che qualcuno lo riconosca e la qualcosa qualche voto misto pernacchia gli renda — come candidata-civetta è meno improponibile e più seria.

Eppure. Come si vede — e là si vota, e da noi si nota ma non ci si crede — in Spagna e Portogallo vincere e convincere senza convivere col peggio dell’affarismo a cui fare da palo o da paggio, si può. Ma occorre essere credibili e coerenti più che confusi e felici, collusi contanti e contenti; cambiare idee, nomi, ma soprattutto strane frequentazioni e mescolanze, alleanze politiche e comportamenti. Ricominciare da capo, non solo dal Capo e dai capetti. Altrimenti per rabbia o disgusto, per disperazione o per dispetto, come in un eterno Heil-Halloween la gente voterà questo e pure il prossimo matto Matteo aspirante ducetto o scherzetto. E siamo alle elezioni, che di solito lasciano dure lezioni, che però durano sempre troppo poco: precise alle erezioni. Non per niente anche stavolta — europeo o italiano che sia, da Casapound a casa Meloni che candida il nipotino di Mussolini che fa sempre tenerezza e simpatia — il voto propende per un #iovotoitaliano e antieuropeo. Perché i governi del cambiamento cambiano dopo non aver cambiato nulla o non abbastanza, vanno o restano, me le cose che non vanno quelle restano. E pure in abbondanza, in aumento di cancrena e non curanza. Quello che non si vuole capire è che in Italia come in Europa — e come probabilmente sarà anche dopo domenica 26 — si dice si teme o si paventa che possa cambiare tutto, che ci sia un golpe democratico o solo un governo della ggente, ma poi la verità (e la paura) è che — sotto tutta sta fuffosofia ammanicata ed elitista o avventata e populista o avvinazzata etilista — non ci sia e non si riesca a cambiare niente. E a quel punto — se i treni dal paese spariscono anche più velocemente dei soldi e e delle speranze mese per mese — la gente crede a tutto. Per i suoi problemi veri almeno quanto la propria rabbia, marcia corre e ricorre a qualunque soluzione: falsa e sfacciata, qualunquista e svasticata, apertamente razzinazionalista o criptonazista. Una soluzione purchessia, pure Finale. I lager per una lager. Se in cambio della mia rabbia mi danno la speranza e magari mi fanno pure la spesa e il pieno di bile e di birretta senza cui non si può stare senza, altrochè i Nazisti dell’Illinois: io voto pure i fasciondranghetisti boys, mando falangisti fancazzisti e fan dei razzisti a Bruxelles da Como a Cosenza. Questa è la verità. Nuda che ci lascia in mutande; cruda che ci mangia e ci (cal)pesta le convinzioni le prolusioni e le illusioni a sangue. Se pensi più alle periferiche e alle banche che alle periferie, ai signori delle Usb o delle Ubs più che alla signora che per cui è Bulgari pure l’Oviesse, ovvio che quei quartieri votano bulgari pure per le Essesse. E hai voglia a riaprire sezioni a Casal Bruciato: se Zingaretti non si occupa di chi occupa la casa e pesta i piedi o i vicini al grido di Zingari Maledetti, qui è già bruciato tutto.  

L'ideale europeista e progressista è in crisi non per i suoi veri nemici che l'attaccano a male parole, ma per i suoi pessimi amici che la difendono a belle parole e basta. Fatti concreti, non atti vuoti. Baste cerimonie, querelle e querimonie per coprire latrocini inefficienze e acrimonie. La cultura democratica prima dell’incultura da inculata ragionieristico-economica. Al sogno — e anche al bisogno — d’Europa occorrono verità generosità e giustizia, non furbizia contabilità e malizia. Le storture vanno denunciate e punite, non incoraggiate imboscate e/o premiate. I francesi e i tedeschi non possono fare i portoghesi — fare gli sboroni le regole e sgli scrocconi perché siano gli altri a pagare per loro, fare i sibariti e i sodomiti col culo degli altri anziché con quelle belle chiappe d’oro. Ungheresi e polacchi coi fondi europei a momenti si fanno ricchi e sceicchi, ma si permettono di toccare il fondo dell’autoritarismo razzifascista da cose turche liquidando e coglionando i (pochi) richiami Ue come ué-ué di piagnistei da radical-sciocchi. Ennò, se ti prosciughi i milioni, poi t’asciughi anche i cazziatoni. Più mano ferma, più rispetto della sostanza e pure della forma, meno botte da Orban e brutta compagnia. Diritti civili e doveri democratici: questo ci vuole, perché il vecchio continente non sia solo il paradiso fiscale e fecale per nuovi prepotenti da canti nazicattolici e vecchi incontinenti coi conti caraibici. O così o l’Europa resta un guscio vuoto, che tutti possono prendere per il culo prendendoci pure uno stipendio e più di qualche voto; o così o la costruzione europea sarà solo una cattedrale nel deserto, anche se nel centro di Parigi. Per questo Notre Dame è davvero un simbolo del nostro dramma, è davvero Notre Drame: perché non ce ne curiamo, e la mandiamo al rogo nei fatti mentre a parolone e parabole paracule la (bene)diciamo come un modello: ma al massimo è un cazzo di rompicapolavoro complicato e inutile, uno scheletro bruciato che non impedirà nuove guerre vecchie aberrazioni e nuove generazioni portate al macello. Bisogna ragionare sul tempo futuro — anche se spaventa o latita — se non si vuole che per un certo ideale democratico e progressista sia ancora, sempre e per sempre tempo d’essere il morituro che saluta o il fottituro che anziché agire in fretta ancora esita. Ma di questi problemi, di questi dilemmi che attendono risposta ma non aspettano ancora molto prima di diventare drammi, non parla nessuno. Mondiali europee o nazionali, qui da noi si comizia e ci si delizia con discorsi da pianerottolo Marshall irrilevanti livorosi e imbarazzanti pure per le comunali di Belcastro o di Belluno. La situazione è talmente da piangere che a vedere Silvione ringalluzzito da bene bravo cialis in neurovisione, non sai se ridere o rimpiangere. Forse era persino meglio lui dei suoi cattivi imitatori, dei suoi incattiviti cloni ex clown e successori. Perché il problema non sono i cazzari che colle elezioni vanno e vengono, ma i cazzi amari che senza soluzioni che somiglino a rivoluzioni — morali, culturali, materiali — verranno di sicuro e da soli non se ne andranno. Restando in (s)fiduciosa attesa, come sempre e più che mai: buona notte della ragione, buon voto e buona (s)fortuna.
      


                

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