giovedì 31 ottobre 2019

LE CRONICHE DI NARNIA


No che non era un bullo bollito che ad agosto s’è giocato il governo dopo il terzo mojito. Il Salvini uscito dalla porta del Papeete sfottutissimo, infatti rientra dalla finestra elettorale in Umbria smargiasso e fortissimo. Tutto previsto e prevedibile, tranne dai geni civili e religiosi delle previsioni delle omelie-strategie e degli sfottò-titoloni. Prime firme come ultimi scemi, ora la situazione è lampante — non meno che laida e imbarazzante. Salvini è di nuovo in sella, facendo un governo col giallo e col rosso si è riusciti miracolosamente a ottenere solo grigio a più non posso, ma in compenso non passa giorno (che infatti non passa…) senza qualche scazzo matto e Matteo (è un accordo sbagliato: non per niente sono io che l’ho voluto e c’ho guadagnato…) persino Renzi sembra sempre più in gioco e in palla. Per Zinga Conte e Giggino — gli alleati in campagna in foto e in fondo più forzati, svogliati, sbadati — una fine leggermente più cruenta e indecorosa di Al Baghdadi. Ma non poteva andare diversamente. Quando inizi dalla fine, è già l’inizio della fine. Voi lettori di Papaluti fra i più accaniti ma stranamente non ancora ricoverati, sapete come la pensiamo qua: Pd e Movimento dovevano parlarsi da mo’, da almeno due anni in qua. Ma un governo — possibilmente non di potere, né col dovere di non poter perderlo… — doveva essere alla fine della strada, non al principio: altrimenti ci si ritrova come adesso: in mezzo a una strada, con molte poltrone ma manco un principio, con troppi capetti e codazzi ma senza idee capo né coda: epperforza che poi sono cazzi. Se scambi la A colla Z, il legittimo potere parlamentare con il consenso popolare, è fatale e fattuale che te la prendi in culo dalla A di Abruzzo alla Z di Umbria. E’ un errore di logica, pure di bassa ortografia, senza scomodare o scazzare l’alta politologia. Come abbiamo scritto noi — e avrebbe prescritto qualunque dottore della muta di elettori da non trattare come parchi o porci buoi — una lista d’obiettivi e non di nomi doveva essere il punto d’ogni possibile partenza, se non proprio d’una passabile alleanza. Parlarsi prima, accordarsi, anziché parlarsi solo adesso e solo per (s)parlarsi addosso. Per mille motivi (non tutti buoni, non tutti cattivi) si è cominciato dalla fine, si è cominciato senza fini e precisi confini, e adesso il punto — anzi i punti, percentuali e di distacco, che sono venti — è questo: avanti così, o si stacca la spina a Conte al più presto o si stacca il biglietto a un Salvini al 50%.

Certo farlo non è come dirlo, e adesso ‘sto governo è fin troppo facile disfarlo sfancularlo e maledirlo. Persino per noi, anti-papisti che pure scriviamo papale papale coi nostri Papaluti, ma che  mica scriviamo tanto per parlare come tanti e cotanti rincoglioniti. Gli sboroni gli sberti e i faciloni del giorno dopo, col senno del poi dopo un sonno più lungo che mai, li lasciamo parlare e russare. Però, siccome non ambiamo a far sì che Salvini fra Palazzo Chigi e Quirinale possa addirittura ambire ad ambare, qualcosa bisogna fare. Possibilmente di costruttivo, di meno facile del notare e del battutare sul fatto che — tanto per dire — anche senza fare la legge il taglio dei parlamentari M5S lo faranno gli elettori quando si andrà a votare; qualcosa che non somigli a una tafazzata sfasciatutto e fascistizza-tutti che magari fra Salvini e Giggini favorisca un ricongiungimento (fin troppo) familiare. Staccare la spina al governo è una spina: che bisogna affrontare, sfruttare, per l’appunto governare: magari tirandone fuori una rosa di roba buona, anche solo decente, che non salva il mondo ma funziona. Dell’Umbria non bisogna minimizzare il risultato — dall’Umbria si può massimizzare qualche risultato. Non bisogna perdere del tutto la ragione né aspettare di perdere tutte le regioni. Ragionare, spaziare, spezzare il cerchio politichese guardando al paese: senza rilanciare o nicchiare e minchionare promettendo l’impossibile, senza rimpicciolire e regionalizzare in modo sciocco paraculo e palese. Poche balle e balletti, c’è in ballo l’Italia tremens. Tutta, quel che ne resta, quella del tutto marcia (su Roma: da Terni via Narni) e quella che (ancora, a destra) non si butta. Come direbbe Lenin: Che Fare? Come risponderebbe a tono Adrianone Pappalardo, Ricominciamo. A girare, a parlare, a fare politica riprendendo a girare ma senza riprendersi in giro. Altrimenti rifinisce che stravincono e straconvincono Capitan Salvini e la sua versione lady-boia chi molla transgender, la camerata con svista Giorgia Meloni.   

Noi non volevamo che l’accordo Pd-5 Stelle fosse fatto così, in un niente: ma adesso non crediamo debba essere disfatto così, come niente. E’ un casino, forse è tardi, il dentifricio non può essere messo nel tubetto — ma st’accordificio che non vale un tubo può essere ancora corretto. Ma devono cambiare prospettive, propositi, aspettative. Ad esempio quella secondo cui basta indurire — le posizioni, l’udito, l’uso di menate da politichese a menadito — per durare. Basta figliare e sfogliare proposte vaghe, magari benintenzionate ma malpensate, improvvisate idiote e utili al paese come il sale o il vagisil sulle piaghe. Levarsi dal capo — anche di governo — che si possa andare avanti tre anni così: che si possa salvare la democrazia a dispetto degli elettori, che ci si possa ergere a difensori della democrazia facendo la figura e/o la parte gli anti-democratici ottusi ed elitari. Scendere dal piedistallo per farsela a piedi — l’unica per uscire (interi, in piedi, persino fieri) dallo stallo. Basta Bostik da mettere sulla poltrona, meglio mettere in cantiere eppoi in carniere qualche cosa che magari da sola non basta, non ti e non ci salva, ma funziona. Tipo mettere da parte volponi e vogliosi papponi che vogliono tirare a campare, ad accampare scuse e a rimpastare maggioranze fantasiose neo-fanfaniane o fantaschifose. Immigrazione, lavoro, sanità pubblica e mentale, giustizia penale e sociale… Darsi un tempo limitato, portare a casa qualche provvedimento progressista e non solo pro-populista con un senso e magari un consenso, darsi uno slancio senza passare dall’ennesimo accordicchio stentato e limato: eppoi però portare il paese al voto. Basta bizze, scazzi mazzi e bische sulla pelle e le palle degl’italiani. Andare alle elezioni, non temerle ma prepararle — andare a cercare i voti non comprati o cammellati, ma preparati. Chiudere coi giochetti, aprire al paese, giocarsela senza paure senza giocare sulla paura le bugie e i dispetti; basta lotte interne senza senso né quartiere: ma lottare con un senso là fuori, nei quartieri abbandonati e salvinizzati dove se non t’ammazza lo stipendio da fame t’accoppa il primo spacciatore. Fare all-in, senza aspettarsi o aspettare che il Merda in oro esca dall’argent de pochette in tasca al Conte di turno, che senza sudare e pur di durare ti attua indifferentemente il programma di Trump di Putin o di Stalin. Darsi una direzione — politica, persino etica — anziché a disperate e disparate direzioni politiche eroicomiche che si danno a un uomo per tutte le stagioni e le più reiette reincarnazioni. Difficile dite? Siete ottimisti: noi diciamo impossibile. Però almeno sensato, come minimo salutare e utile, se non addirittura nobile. E soprattutto: inevitabile. Mettere il paese avanti, prendersi le proprie responsabilità, per poter mettere il paese davanti alle proprie responsabilità. Fare all’Italia una proposta politica chiara, limitata non intellettualmente ma temporalmente, intellettualmente (e non temporaneamente…) onesta: eppoi, se vuole l’Italia si riprenda in carico in carica eppoi in culo la falsa soluzione sovranista. Lavorare perché nell’accordo Pd-5S prevalgano i pregi sui difetti, anziché lavorarsi a vicenda e ai fianchi fra sfregi e dispetti. Riconoscere i propri errori, anziché disconoscere agli avversari i meriti di discorsi politici — sì orrendi, sì da falsari e da cazzari tremendi — ma almeno comprensibili, coerenti, chiari. Meglio provare a vincere eppoi perdere, che nemmeno provarci — provando oltretutto a illudere o illudersi — e comunque perdersi. O in questo modo, oppure avanti tutta e con tutta la saga fotografica da turbe psicopolitopatologiche incurabili e ininculabili tipo Croniche di Narnia. Un fotto-romanzo fantasy, da gente che non c’entra e non centra la realtà, che là fuori tra la gente è peggio di qualunque reality. Ma è con questa che bisogna fare i conti, perché questo è il mestiere della politica — non fare e disfare i Conte pur di dividersi scanni poltrone e strapunti. Insomma. Misurarsi coll’ex bel paese reale — infelice ma contento se in contanti, oramai più brutto che bello — anziché stare lì a misurarsi i sondaggi e l’uccello. Noi la vediamo così — o in questo modo, oppure tanto vale sin da ora prepararsi a vedere Salvini primo ministro che si elegge Savoini Presidente della Repubblica Putinitaliana nella sua nuova sede dell’Hotel Metropole: che dite facciamo che ce la facciamo, o facciamo che ci vediamo lì? In ogni caso, buona notte e buona fortuna.



        

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