La Costituzione per l’Italia
non si tocca, Renzi per la sua carriera può toccarsi. E forse s’è già toccato
troppo, assieme a tutti quelli che si facevano seghe e gli portavano sfighe sul
prossimo successone. E che sono rimasti ciechi, e adesso a Renzi arriva sì il
prossimo: ma successore. Forse un suo clone, forse un suo paggio, forse Giggino
dei Grillini, forse un Salvini: forse addirittura peggio. #Ciaone Matteo, è
stato bullo finché è durato… Già stanotte a un certo punto aveva meno amici di
un pedofilo cannibale su Facebook. Amiconi e giornaloni l’hanno scaricato
subito, e con lui sono rimaste solo le Milfone del Corriere, per cui è sempre
il tempo delle Meli. Lacrimucce,
commozione, amore finito. Madre Teresa, coraggio. E lui che le sussurra: Non credevo mi odiassero così tanto — e che fai Matté, ti sottovaluti
proprio all’ultimo?! Ha fallito. Hanno fallito sia il regalo che il ricatto,
con relativa crisi di governo e di rigetto. E adesso siamo in una situazione
senza né capo né coda, ma sempre meglio che col capetto e relativi
servi-clientes in coda. Le questioni più gravi restano tutte, tranne una cosina
trascurabile, proprio robetta: la Costituzione e la democrazia l’hanno sfangata,
non le ha infangate nessuno per fare cassetta. Basta piccoli Schifani fiorentini,
avvocatesse e massoni aretini, pitreisti del partito della Nazione bianchi
rossi e Verdini. Bene, anzi benissimo. E adesso avanti, anche se sembra
d’andare sempre più indietro, che vada malissimo. Mattarella avrà da lavorare,
si dovrà svegliare, forse dovrà addirittura parlare? E pazienza. Era già
scritto, lo abbiamo già scritto: sarà difficile, ma non importa. La
malapolitica bulletta, autoritaria, fottipiangente Lacrime Napolitane non è
riuscita a dare la colpa alla Costituzione antifascista per i propri fallimenti
antistorici, anti-decenza, anti-logica di un governo che sia anche solo
lontanamente progressista. Giustizia e Libertà, e scusate e se è poco. La
Costituzione è salva, e noi siamo più leggeri, più contenti, più liberi — anche di sbagliare, di fare
cacare più di prima. Mettere mano alla Carta in questo modo — manomettendola — era mettere mano alla carta
scottex senza manco scalfire, ha voglia Scalfari a dire, il merdone. E infatti
i problemi sono ancora tutti lì, dove sarebbero rimasti anche colla vittoria del
sì. Punto e a capo, col vantaggio d’aver messo a punto un infallibile
trattamento anti-capetto. Almeno per adesso, l’Uomo Sola al comando non tira
più — né pacchi né alle urne.
E adesso? Adesso c’è, c’era
già, ci sarà da capire, teorizzare, strologare. Elezioni subito, legge
elettorale e di bilancio prima, qualche questione concreta, prima o poi… Ognuno
dirà la sua, cercando ovviamente di tirarla dalla propria. Politica
politicante, quella che piace e fa campare giornalisti, parlamentari,
giornalisti parlamentari. Per il disagio, le disparità vere brucianti e urgenti
c’è sempre tempo, no? Beh, come l’Italia ha scritto circa 19 milioni di volte
sulla scheda… NO!
Un suggerimento abbastanza
chiaro, una rabbia forte, ma il nostro ceto politico, il nostro ceppo di muffe burocratico-lobbistico?
E’ chiaro: è tardo forte. Oltra a questo scazzo d’orgoglio occorreranno altri
segnali, forse, ma non di fumo. Quello ce lo mettono loro. Probabilmente a
certa gente abbiamo fatto #Ciaone, basta con gentaglia tipo i Rondolino e i
Carbone, i gerarchi renziani che sono guappi di cartone, quelli che spariscono
dopo lo scoppolone. Ma a certe questioni diciamo solo arrivederci: al prossimo
appuntamento elettorale, al primo peggioramento vario ed eventuale. La
corruzione galoppante, il paese stagnante, il malaffare inchiappettante; la
meglio gioventù migrante, la sicurezza, la paura che cresce sempre di più per
la disperazione immigrante. Quante belle cose, tutte nostre, e quante belle
collaborazioni colle floride e fetide Cose Nostre. La scelta è vasta, la gamma
nefasta, e non crediate che con questo voto o altro cento sia scomparsa la Casta. La
disoccupazione, la giustizia sociale, il degrado culturale e umano quasi più
grave di quello urbano. Problemi gravi, da cui non si esce con un Vaffa o con
un Dibba o con un capo colle palle — se ne esce colla testa, sulle spalle. Con persone
responsabili, coerenti e conseguenti nei comportamenti. In pratica, se ne esce
come noi del Papaluto potremmo uscire con Kate Upton: colla speranza, colla
fantasia, sperando in una botta di culo di carestia o di miracolosa arrapanza…
E visto che siamo in tema di
fantasie impossibili, noi ci lanciamo. Raccontando — secondo noi, che in testa c’abbiamo i problemi — quali sono i problemi in
testa all’agenda di un ideale e provvidenziale governo. Semplice: non far più
succedere cose come quelle che andiamo a raccontare qui sotto, da questo pezzo
d’Italia che va sempre più sotto.
Con una premessa, che vale
come una promessa. La Liberazione ha avuto come coronamento la Costituzione, ma
questa Costituzione non rappresenta la liberazione da quello che siamo. Con
tutti i nostri pregi e i nostri sfregi, i nostri difetti e il nostro essergli
indifferenti, ritenendoci indistruttibili se non perfetti. Invece la colpa non
è solo e sempre del governo disgraziato — non foss’altro perché i digraziati che hanno scelto quel
governo, questi governi, spesso siamo noi. Che non vogliano sapere, non
vogliamo ascoltare, non vogliamo proprio sentire storie come questa.
Perché cosa rimane, dopo
tutte queste belle storie sul referendum? La solita storia brutta, il Paese
s’incazza e s’inganna ad libitum. La brutta scoria dal solito mucchio di
macerie civili, congerie concettuali, macellerie istituzionali. Dopo domenica
si torna al solito Paese che molti raccontano come se fosse sempre domenica;
che si vorrebbe normale — quindi normato — e che chissà come i soliti mignotti manco tanto ignoti
cercano di rendere normalizzato. Anche se già adesso è bello anormale, ipernormato,
anestetizzato. Troppe leggi ignorate, troppi maneggi e troppe magate. Assente,
rassegnato, indifferente. Sordomuto eppure petulante, logorroico, origliante;
cieco e sordo, almeno quanto occhiuto, pettegolo, tutto social e in fregola. Sempre
per cazzate, ché nelle cose serie il Paese
Reale non ci s’impegola. E allora tocca a noi, che scriviamo e viviamo qui
a Poipolo, il paese dell’Irreale. E allora, noi del Papaluto che cazzo
vogliamo? Il solito, grazie. Con tanto pepe e poco ghiaccio nelle vene, dirvi
l’ennesima cosa (Nostra) che ci fa incazzare — e come viene, viene…
Vincenzo Agostino (nella foto: dei due anziani, lui è quello senza scorta ma non senza dignità..) non taglia
la barba da 27 anni, da quando il 5 agosto 1989 a Carini suo figlio Nino con la
moglie incinta di 5 mesi furono trucidati sulla porta di casa. Nino era un
poliziotto, e ai suoi funerali c’erano anche Falcone e Borsellino: altri due
illustri trucidati nella Hall of Shame
delle vergogne d’Italia. Un paese che santifica eppoi dimentica, che vergogna
non ne ha, e ancor meno bisogno o amor di verità. Ammazzato così, come un cane.
Senza pietà e senza ragione. Ma che è successo a Nino? Pista passionale,
vecchio, e vedi di fartela bastare, di fartela passare. Ma Vincenzo Agostino ha
detto no, ha smesso di tagliare la barba e ha cominciato a fare domande. Iniziando
da una: perché Falcone ai funerali di Nino ha detto A quel ragazzo devo la vita? E perché poi senza, Nino Agostino,
Falcone e Borsellino quella vita l’hanno persa? E perché sui tre luoghi dei tre
delitti — Carini, Capaci e via D’Amelio — c’era sempre un uomo, tale signor Carlo o Faccia di
Mostro? Uno dei servizi segreti italiani, ma anche dei mafiosi: dei servizi
mica tanto segreti ai mafiosi. Uno che ha saputo sparare e tacere, forse
torturare, che ha fatto sparire l’agenda rossa di Borsellino e visto sciogliere
nell’acido Santino Di Matteo. Uno che sa tanto, che non dice niente, che vive
tranquillo e neppure latitante. Uno insomma che lavorava per i mandanti e gli
esplodenti delle stragi del ’92. Uno contro cui lavorava Nino Agostino, che
però (anche se il padre non lo sapeva) lavorava sempre per i servizi segreti e
per lo Stato. Ma quello buono, non quello da niente di buono, quello dei Faccia
di Mostro buoni a premere il grilletto, a sciogliere nell’acido un bimbetto, a
organizzare e godersi la bomba che esplode in Via D’Amelio o sotto un viadotto.
Nino indagava, non indugiava, chiedeva e rompeva sul primo attentato a Falcone.
Quello fallito, quello che si disse di era fatto da solo, che come si dissero i
mafiosi andando a vuoto fece perdere solo un sacco di tempo. Quattro anni
persi, ma Nino Agostino li ha pagati cogl’interessi. Quattro, cinque, sei
colpi. I bossoli a terra, i boss e i loro complici al settimo cielo. E il padre
mai a rassegnarsi, disposto a tutto pur di trovare qualcuno che s’interessi.
Attilio Bolzoni di Repubblica, prima; la Procura della Repubblica di Palermo,
poi. Che individuano sullo Jonio catanzarese un rifiuto tossico che levati,
altroché fusti radioattivi delle Iene. Un bel fusto di fatti misteriosi,
tossici, sanguinosi. Giovanni Aiello è Faccia di Mostro? Vincenzo Agostino lo
riconosce subito nel confronto all’americana — c’è il filmato, lo fa e si
sente male, e se guardandolo non vi commuove vuol dire che avete visto troppa
televisione Defilippiana…
Succedeva nel febbraio scorso.
Un testimone oculare riconosce l’autore di un delitto. Di molti, delitti. Un
pezzo di storia e di merda che va a posto. Anche fosse uno scippatore di
cioccolatini anziché un comparuccio d’assassini e uno squagliatore di bambini,
la prassi sarebbe fare il processo. Metterlo alla sbarra, togliere ogni dubbio.
Colpevole o innocente. E invece del processo di prassi, rifanno il processo di
Kafka. Lasciamo stare, lasciamo cadere le accuse, marcire la speranza. Perché forse
Giovanni Aiello non è Faccia di Mostro, peccato che la procura chieda: non si
faccia il processo, non è compito nostro. Capito? Chiedere il non luogo a procedere,
e tutto perché l’Italia è un luogo in cui certe cose non devono procedere. E
ben altre, devono precedere la Giustizia, la Libertà, la Verità. Ci sono gli
equilibri, le leggi di bilancio prima di quelle dei tribunali, la
governabilità… Accertamento della verità? Stuzzicamento dell’omertà, delle
vergogne, delle complicità? Per carità! Nessuno tocchi Caino, e va bene; ma
nessuno chieda neppure a Giovanni Aiello, di discolparsi dall’accusa d’essere
Faccia di Mostro o Caino. Superiori
interessi complessivi d’indagine. Questo hanno spiegato — non spiegando — gl’inquirenti; linguaggio
fumoso, buono come il latinorum che fotteva gl’ignoranti. Che forse salca
delinquenti. E che significa, poi? E che significa, per noi?
Che queste cose succedono
perché i magistrati dell’inchiesta sono renziani? Ovviamente no. Ma magari
perché sono cittadini italiani, come tutti noi non sono eroi ma sono umani. Risentono
del clima, sentono e risentono i suggerimenti. Ma chi cazzo te la fa fare. Il
filone è su un binario morto — pure tu vuoi farti trovare vicino a qualche binario,
morto?! Ma davvero per Nino Agostino vuoi fare la fine di Santino Di Matteo — sciolto nell’acido — o di Nino Di Matteo, il pm della Trattativa Stato Mafia,
cane sciolto e squagliato nell’indifferenza? Naturale, comprensibile, persino
giusto, lasciare nelle segrete stanze le pretese di giustizia. Solo che Nino Di
Matteo innaturalmente, incomprensibilmente, ha avuto il coraggio di non lasciar cadere le pubbliche
istanze di giustizia. Di chiedere ragione persino a Lacrime Napolitano in
carica, della carica esplosiva piazzata sotto le fondamente della Repubblica.
Di Nicola Mancino, di Loris D’Ambrosio: morti veri o carcasse politiche che
portano nella tomba i segreti su certi morti, su certi atti, su certe anime
morte. Giorgione da Borbone, bonta e maestà sua, ha risposto non ricordo: eppoi
ha detto questa non me la scordo. Sentendosi oltraggiato, ha chiesto al Csm che
il responsabile fosse — se non pestato — almeno un appestato. E infatti. La mafia vuole ucciderlo,
lo Stato non vuole proteggerlo: vuole trasferirlo, lo vuole tutelato. O forse
solo isolato. Storia già sentita, di solito prima di sentire un boato… Nessuno
vuol sapere più niente di Nino Di Matteo, come di Nino Agostino: almeno fin
quando qualcuno a volto coperto o sfigurato non gli fa il funerale di
Stato-Mafia, e noi ci facciamo il piantino. Non c’entra niente, col Referendum,
eppure c’entra tutto. E’ con uomini così, che l’Italia che non cambia mai può
cambiare per sempre: partendo dalle idee, dagli esempi, più che dagli ominicchi
che per calcolo politico spaccano un paese già a pezzi su un No o su un Sì.
Tanto per concludere, tanto per cominciare a cambiare: Nino Di Matteo al
referendum ha votato No. E noi all’Italia che dopo il voto vuol votare le spalle anche alla verità,
diciamo ancora e sempre no.
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