Affezionati
lettori di Papaluti — e resta ancora da capire perché, per quale forma di
autolesionismo… — oggi sulla lavagnetta del menu ci sono Cinema, Superficie e Profondità Tricolori su Letto di Tre Premesse. Prima
premessa: una volta tanto l’Italia può vantarsi di un film bellissimo; seconda:
il cinemino e la politichetta italiani neanche se lo meriterebbero, un film
così bello; terza: questo film non è La
Grande Bellezza, ma già che ci siamo partiamo da qui. Tolto il titolo
qualche scena e quel mostro di Toni Servillo, ‘sta grande
bellezza proprio non s’è vista. Sorrentino voleva fare un film sulla
superficialità triste dell’Italia, e glien’è venuto uno di superficialità triste:
ma sua personale. Colle migliori intenzioni (si spera) Sorrentino — che è bravo
ma non è Fellini — è partito con un’idea di racconto su Roma ed è arrivato a una
fellinata similpelle, a una Dolce Vita craccata col centuplo del budget e un
miliardesimo del talento. Pazienza, capita di guastarsi col crescere. Anche
Tony Servillo — che non è Mastroianni ma è il miglior attore italiano: come lo è
stato Mastroianni — a forza d’interpretare stronzi è diventato uno stronzo che
sfancula giornaliste e domande senz’almeno un chilo di zucchero leccaculo
sopra. Anche qui metterci mooolta pazienza, anche se sta finendo. Insomma un
film con tante aspettative, tanti spettatori, tanto rumore per nulla. Peccato,
finita lì, ci sarà un’altra occasione. Ennò, perché all’improvviso arrivano gli
americani. Arriva nientemeno che il Golden Globe, una specie di petting
rispetto alla scopatona completa degli Oscar, pluricoglioneggiato anche nei
Simpson. Ma l’Italia ovviamente non lo sa. Per l’Italia quando arrivano loro è
sempre Liberazione, è sempre Alberto Sordi ma tragicamente preso sul serio:
grande America, grazie America che dopo tanto che non ci cacavi ci dai ancora
cioccolata sigarette e premi cinematografici. Prego, prego amico italiano: noi
sempre ti dare award se tu ci racconti Italia di Fellini imitazione, Italia di
sessant’anni fa rifatta in plastica, quella che sempre ci piace a noi come i
fettuccini bolognesi e i souvenir cinesi. Le feste, il Colosseo, la nana, le
tettone, le monachelle, i fenicotteri —
Sorrentino ha stuccato ‘sto presepe marcio,
‘sta bancarella di puttanoni veri e centurioni finti che siamo. Però senza
trarne le conseguenze, senza voler scontentare nessuno, senz’affondare il
colpo. Rimanendo alla superficie, appunto. Facendo un film per esteti ed
estetiste, un pappone consolatorio buono per tutti, magari anche per l’Oscar.
Del resto dal suo discorsetto di ringraziamento si capisce tutto, troppo.
Acchiappato il Globo d’Oro, ce ne ha fatti due di marmo coll’Italia pazza e bellissima che ringrazio. Un po’
Mino Reitano (Italia/Itaaalia/Di terra bella uguale non ce n’è), un po’ Elio (Tanti
problemi irrisolti/Ma un cuore grande così). Solo che Elio scherzava,
Sorrentino invece ci crede più di Minone nostro: e fa ridere dalla tristezza.
Fosse un film sarebbe capolavoro, essendo realtà è un capolavoro di
paraculismo. Ma alternative in Italia non ne hai — ti tocca il cliché. O sei il
regista scomodo che scassa coi pipponi, o sei il regista comodo che incassa i
soldoni: una via di mezzo e di decenza, da noi, mai. In un paese che al cinema
ha dato tanto e che adesso gli darebbe giusto il topicida, se vuoi fare un film
ambizioso devi andare o dalla Rai ancora berluscona o dalla Medusa sempre
berluscona. Non per niente il tg5 di questi giorni è il solito Istituto Duce
Silvio, ma in versione cineforum: che bellezza la grande bellezza, che grande
bellezza grande per l’Italia, che grande Dudi dal suo metro e venti di
vicepresidentissimo. Magari per una volta che siamo ottimisti ci sbagliamo,
però secondo noi Sorrentino ‘sto
famoso colpo non l’ha affondato perché avrebbe dovuto scendere la clava addosso
al paese del Bunga Bunga col contante e il contento di Re Silvio Bungabungoni:
un po’ complicato. Ma va bene così. Questo zucchero filato grigio e
pseudoartistico va benissimo per noi, per il paese che in fondo ha sempre dato
ragione ad Andreotti e torto al neorealismo — i panni sporchi si lavano in
famiglia: meglio De Laurentiis e De Sica figlio, che Rossellini e De Sica
padre. Troppi problemi, cazzi amari, troppe cose brutte. Meglio l’apparenza, le
convenienze, la superficie immobile di chi si consola morendo di vita
apparente. Se vi piacete così, se vi sta bene così, allora smettete di leggere.
Se invece vi disgusta questo convulso muoversi nel nulla, questo sprofondare,
quest’affaccendarsi finto e merdoso smettete di leggere lo stesso: e andate al cinema,
c’è Il Capitale Umano di Virzì. La
grande bellezza qui non è nel titolo, è nei fatti. Non lo diciamo noi, lo
dicono Libero e Giornale, che riassumiamo:
Coi nostri soldi Virzì sputtana l’Italia che lavora. E che vi serve più,
per capire che è un capolavoro? Neanche era uscito e le solite code d’asino e
di paglia già ragliavano, mutande verdi per facce di culo padane subito a
grugnire — sputtanamento della Brianza! Essì perché mò per sputtanare la
Brianza serve il film di Virzì: non basta il film horror in cui per
quarant’anni si sono votati la Diccì, Bottino Craxi, Silvione e Umbertone, i
gemelli perversi?! Ma nel film non c’è la Brianza, c’è l’Italia. Nel film,
freddo ed elegante e spietato, c’è l’Italia vera: mica la panna guasta
dell’immagine, del gossip politico, del populismo mediatico. Non c’è il paese
dell’Italicum che non a caso fa rima con Valium: Silvione che torna padre e
padrino della patria ti chiama almeno un fiasco d’ansiolitico urgente; non c’è
il berluschino Renzi che fa l’accordo col Berluscone originale per festeggiare
il primo inquisito della sua segreteria (il Faraone del rimborso, manco
arrivato e già indagato: nel vangelo secondo Matteo va tutto veloce, pure
l’allungamento delle mani…); non ci trovate le migliori menti BersanDalemiane
che adesso Renzi l’attaccano perché l’accordo con Berlusconi non si fa,
no-no-no: noi infatti c’abbiamo fatto solo un governo e una bicamerale e
l’assicurazione a vita sul conflitto d’interessi; non ci trovate il movimento
proprietario e non tanto mobile del Beppe Grillo sparlante, ormai un cartone
animato e un copyright di Walt Disney Casaleggio: tutti fermi, tutte merde
schifose, non facciamo accordi, non parliamo con nessuno fino a quando non
prendiamo il 250% dei voti, la rivoluzione si fa non facendo una mazza,
aspettando gli alieni, e pazienza se persino il Travaglio Fan Club s’è rotto i
coglioni di noi. Nel film non ci trovate questo, ma molto peggio: ci trovate
noi, che tutto questo l’abbiamo permesso e lo permettiamo. Non la solita tirata
facile contro il governo disgraziato, ma un tiro di pistola al cuore della
società che abitiamo lasciandola marcire. C’è il banchiere ladro e riverito, il
borghese piccolo piccolo ma verme grande grande; c’è la provincia sana come una
fogna, c’è l’avidità al centro della città e della vita; ci sono
gl’intellettuali segaioli di sinistra, ci sono le donne che in parte ci
salvano, ci sono i giovani che se non facciamo presto non li salva nessuno.
Esatto, i giovani: l’argomento più falso e mascalzone di tutti. In un paese che
ha distrutto la scuola e il valore del sapere, soppresso le regole del vivere
civile, avvelenato l’acqua l’aria e il linguaggio — in un paese
così — i giovani non sono il futuro: sono adulti fessi e criminali, solo
con qualche anno in meno. I nostri giovani o te li ritrovi all’estero per avere
una speranza, o te li ritrovi a Benevento per dare un bar allo zio. I famosi
quarantenni sono ottantenni senza le vene varicose, sono Letta e Renzi che si
scannano come Andreotti e De Mita, sono Nunzia De Girolamo maritata Boccia e
Piddì: ma chiamatemi pure Denunzia, e se vi manca Mastella per un appalto
all’Asl provate con me. Siamo questo, e fra poco non saremo più niente. Colla
satira, l’indagine sociale, la sceneggiatura appassionata e appasionante: costruito
benissimo, dal primo all’ultimo minuto di film Il Capitale Umano affonda il colpo nell’Italia che affonda. Non per
polemica, non per ridere o piangerne e basta, ma per suggerire una visione
d’assieme. Artistica e civile, se volete.
Scavare impietosi. Cercarsi le piaghe. Guardarsi in faccia senza
guardare in faccia nessuno. Scendere in profondità per risalire. Che non è solo
un paradosso: forse è una via d’uscita.